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Apprendistato e precarietà

Apprendistato e precarietà

Lo strumento per favorire le imprese e i bassi salari

Quasi 30 anni all’insegna della precarietà lavorativa non hanno reso il capitalismo italiano attrattivo per gli investitori e capace di performance elevate. Al contrario, la tanto decantata produttività lascia alquanto a desiderare e i salari e il potere di acquisto sono in caduta libera.

I posti di lavoro creati attraverso contratti precari continuano a non coprire nemmeno il fabbisogno aziendale: da un lato gli imprenditori italiani sono alla costante ricerca di profili professionali specializzati, per avere i quali servono tempo, formazione e investimenti, mentre dall’altro non riescono nemmeno a utilizzare i contratti di apprendistato, nonostante rappresentino un grosso favore per le imprese.

Nel 2023 registriamo un 5% in meno di contratti di apprendistato trasformati in indeterminato, nonostante gli interventi attuati dal Governo con il decreto lavoro: rispetto al passato è possibile sottoscrivere un contratto di apprendistato anche oltre compimento dei 30 anni di età… una estensione di questa tipologia contrattuale alquanto pericolosa. Per assumere gli over 40 con un contratto di apprendistato professionalizzante sarà necessario che questi siano disoccupati e che abbiano sottoscritto l’immediata disponibilità al lavoro, partecipando alle politiche attive concordate con il Centro per l’Impiego locale.

Il decreto lavoro del 2023 prevede infatti anche l’incentivo per le assunzioni, con la completa esenzione dei contributi previdenziali a carico del datore di lavoro e del lavoratore (questa esenzione sarà applicata entro il limite di 8.000 euro all’anno e vale indistintamente per le assunzioni a tempo indeterminato o in regime di apprendistato).

Nonostante tutto, i dati statistici dimostrano che questi aiuti alle imprese non hanno realizzato un incremento dell’occupazione, nemmeno precaria.

Le principali riforme lavoristiche degli ultimi 30 anni, dunque, non sono servite a costruire un mercato del lavoro capace di affrontare le sfide capitalistiche dei nostri tempi, a conferma che gli interventi legislativi, per lo più emanati dai Governi di centro sinistra, avevano come scopo reale solamente la riduzione del costo del lavoro e il contenimento del potere contrattuale.

 Il Pacchetto Treu, il Jobs Act, la Legge Biagi, il Testo Unico Sacconi, la Legge Fornero (che ha allungato l’età pensionabile), il nuovo sistema di relazioni sindacali costruito a beneficio di quelli “maggiormente rappresentativi” e via dicendo… sono serviti soltanto ad abbattere il potere contrattuale e di acquisto, a rendere precari il lavoro e le nostre stesse esistenze.

Per anni, invece, molti giuslavoristi (come Pietro Ichino, del PD) avevano presentato la precarietà come un’opportunità per creare occupazione. In quest’ottica, l’apprendistato e l’alternanza scuola-lavoro erano state viste come possibili soluzioni per un mercato nel quale i lavoratori dipendenti erano troppo avanti negli anni e per un sistema educativo scollegato dalle imprese.

Anche l’anno 2023 ha confermato che simili mezzi non favoriscono la ripresa occupazionale: l’apprendistato professionalizzante, istituto finalizzato a imparare un mestiere, vede diminuite le trasformazioni nel contratto a tempo indeterminato full time; l’apprendistato di 3° livello, di alta formazione e ricerca, è stato un fallimento; risultati scarsi anche con gli apprendisti di 1° livello.

L’annuale ricerca Inapp attesta a 25 anni l’età media dei lavoratori con contratto di apprendistato e ne colloca il 18,2% in Lombardia, rimarcando come sei regioni italiane abbiano quasi il 70% del totale degli apprendisti e siano tutte collocate nell’area centro settentrionale del paese. Questi giovani si ritrovano inseriti per lo più nei settori manifatturiero, del commercio, delle costruzioni e dei servizi alla persona, spesso alla mercé di contratti nazionali sfavorevoli e di retribuzioni che a stento permettono di superare la soglia di povertà. Frequentemente i ragazzi in apprendistato sostengono più di un rapporto di lavoro in apprendistato, prima magari in un’impresa per un dato periodo di tempo e, poi, in un’altra, senza che queste abbiano alcun obbligo di trasformare il contratto in indeterminato.

L’apprendistato non è stata una occasione perduta dalle imprese per reperire forza lavoro giovane e formata ma, piuttosto, il risultato di una visione perdente secondo la quale, applicando contratti di inserimento e, appunto, di apprendistato, si riduce il costo del lavoro, favorendo le imprese nella competizione internazionale. Peccato per loro, però, che la concorrenza sia più agguerrita e punti molto più di frequente sulle innovazioni e le implementazioni tecnologiche, ottenendo riduzione del costo del lavoro, produttività e licenziamenti in cambio di investimenti iniziali, e massimizzando i profitti.

In questo contesto la formazione rivestirebbe un ruolo importante, perché i processi produttivi tecnologici e specializzati non possono funzionare senza lavoratori competenti. Ecco allora il tentativo di renderla efficace anche in Italia. Sul Sole 24 Ore del 3 febbraio scorso, un articolo dedicato all’apprendistato conclude così:

La grande scommessa è quella di raccordare l’apprendistato con il sistema della formazione professionale e con istruzione tecnica e università per concepirlo in continuità, in un’ottica di filiera formativa-lavorativa.

Frasi del genere le abbiamo già lette nel corso degli anni: dichiarazioni di intenti, mai seguite da fatti. Sarebbe invece interessante aprire una riflessione sulla riforma degli istituti professionali realizzata dal Governo.

Al di là di ogni ulteriore riflessione sulla natura del contratto di apprendistato, urge aprire una riflessione sui fondi del PNRR per l’aziendalizzazione dell’istruzione pubblica, sui progetti di raccordo fra imprese e scuole/università e, soprattutto, sulla riforma della scuola, della Meloni iniziata con i provvedimenti adottati per l’istruzione tecnico-professionale, argomenti sui quali manca una seria analisi collettiva, al posto della quale troviamo invece parziali prese di posizione. Quello sull’apprendistato e sul lavoro in generale è un progetto di riforma che va a danno delle nuove generazioni operaie, presentato però come il tentativo di dare loro un futuro e un’istruzione “che serva veramente a qualcosa” … peccato che si tratti di una mistificazione, di una delle tante.

Un’altra mistificazione, per certi versi analoga, si è verificata con la questione dei licenziamenti volontari: la narrazione ufficiale parlava di una “liberazione dal cartellino”, che avrebbe finalmente consentito a migliaia di persone di gettarsi nella ricerca di nuove motivazioni, salvo poi scoprire che i giovani ricercatori vanno all’estero perché in Italia mancano le borse di studio e i “contrattini” proposti li lascerebbero sotto la soglia di povertà.

Citiamo ora, senza ulteriore commento, i dati resi dall’Osservatorio sul precariato dell’Inps:

«Complessivamente le assunzioni attivate dai datori di lavoro privati nei primi dieci mesi del 2023 sono state 7.006.000, sostanzialmente stabili rispetto allo stesso periodo del 2022 (-0,02%). Il risultato è dovuto alla somma algebrica tra gli andamenti positivi delle assunzioni di contratti di lavoro intermittente (+4%), a tempo determinato (+3%), stagionali (+2%) e quelli negativi di apprendistato e a tempo indeterminato (-4%) e contratti in somministrazione (-7%).
Le trasformazioni da tempo determinato fino a ottobre 2023 sono risultate 653.000, in aumento rispetto allo stesso periodo del 2022 (+3%). Contemporaneamente le conferme di rapporti di apprendistato giunti alla conclusione del periodo formativo sono risultate 83.000, in flessione del 15% (ciò è l’ovvio riflesso ritardato della contrazione delle assunzioni con tale tipologia contrattuale avvenuta nel 2020).

Le cessazioni fino a ottobre del 2023 sono state 6.264.000, in diminuzione rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente (-1%). Concorrono a questo risultato i contratti in somministrazione (-7%), i contratti a tempo indeterminato e i contratti in apprendistato (-5%). Correlata al corrispondente andamento positivo risulta la dinamica dei contratti stagionali (+1%), dei contratti a tempo determinato (+2%) e dei contratti di lavoro intermittente (+3%)».

Fatti due conti possiamo asserire che i posti di lavoro creati dopo la pandemia, molti dei quali precari, sono quasi gli stessi di quelli perduti a causa del Covid (crescono, a dire il vero, di quasi 7.000 unità). Purtroppo non siamo a conoscenza di analisi atte a dimostrare che in molti casi i nuovi contratti prevedano riduzioni orarie e ricorso al part time, come si evince dal dato sulla riduzione delle ore lavorate. E qui entrano in gioco le finalità dei dati statistici, l’utilizzo che ne viene fatto a supporto dei Governi e dei centri del potere economico e, d’altro canto, la maggiore difficoltà nell’utilizzarli per scopi differenti da quelli per cui sono stati prodotti.

In conclusione, pensare che solo aiutando le imprese l’occupazione si sarebbe ripresa dalla crisi pandemica si è dimostrato un approccio errato, tale da rafforzare i profitti senza accrescere il numero degli occupati e il potere di acquisto salariale, che per altro avrebbe un effetto positivo sulla domanda interna.

Non è accettabile, infatti, che gli aiuti di Stato siano indirizzati in favore di condoni a imprenditori e imprese che evadono (evadere i versamenti contributivi in Italia è quasi considerato accettabile, per un imprenditore, come testimoniano i quasi 135 miliardi non riscossi e i 9 condonati nel 2023), o degli sgravi fiscali. Insomma: i prestiti a fondo perduto, che comportano la sostanziale rinuncia a priori ad ogni atto di controllo e di indirizzo pubblico in materia di economia, non sono serviti a rilanciare l’occupazione e non hanno rappresentato aiuti reali alla ripresa economica. E al contempo ampliare i contratti precari o favorirne l’applicazione sarà senza dubbio un vantaggio per le imprese ma non aiuterà a far crescere l’occupazione nel suo complesso.

Federico Giusti ed Emiliano Gentili

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